saec. V
Damigerone, peritissimus a cui la tradizione manoscritta attribuisce la composizione di un lapidario, compare tre volte nelle antiche liste di maghi, in Tertulliano (De anima 57, 1), Arnobio (Adversus nationes 1, 52) e in Apuleio, che nell’Apologia (90, 6) rifiuta di essere assimilato a una schiera di stregoni tra cui Damigeron. Se questi tre autori, tuttavia, non citano del personaggio alcuna opera, i Geoponika bizantini lo annoverano tra le loro fonti, ma nonostante questa traccia di un’attività letteraria resta comunque difficile fare supposizioni sull’identità del compilatore del de lapidibus. Si tratta peraltro di una difficoltà connaturata al genere letterario, la cui natura pratica comportava un’estrema mobilità del testo e lo rendeva soggetto a pesanti interventi di riorganizzazione del materiale (aggiunte, tagli) da parte di chi lo copiava.
In questo caso la questione è ulteriormente complicata dal fatto che i manoscritti tramandano il testo sotto una duplice paternità, Damigerone ed Evace, le cui lettere prefatorie si susseguono in apertura senza dare alcun contributo utile a comprendere la relazione, anche cronologica, tra le due figure. Se, infatti, il nome di Damigerone è ricordato anche da altre testimonianze, Evace non è altrimenti conosciuto, anche se la sua figura parrebbe avere una rilevanza storica, dal momento che si definisce rex Arabiae e dedica la sua opera a Tiberio. [A. Borgna]