Datazione incerta
Nella Biblioteca Capitolare di Toledo è conservato un manoscritto del XIII secolo identificato dalla segnatura 17.14: esso contiene tre traduzioni latine degli Analytica Posteriora di Aristotele seguite dalla versione latina del commento di Temistio alla medesima opera. La prima traduzione, anonima, si apre con un prologo nel quale il traduttore dichiara di essersi cimentato nell'impresa perché la versione latina di Boezio in suo possesso era incompleta e corrotta e quella di Giacomo Veneto (la seconda riportata nel medesimo codice) era molto oscura, tanto che «Francie magistri (...) quamvis illam translacionem et commentarios ab eodem Iacobo translatos habeant, tamen noticiam illius libri non audent profiteri» (f.1r).
Il più antico testimone dell'esistenza di un personaggio chiamato «Giacomo Veneto Greco» è Cerbano Cerbani, chierico veneziano operante alla corte di Costantinopoli come funzionario di Alessio I Comneno. Egli, nel suo racconto del trasferimento delle reliquie di sant'Isidoro dall'isola di Chio a Venezia nel 1125, ricorda una spedizione veneziana in Dalmazia a proposito della quale «Jacobus grecus prosaico (…) stylo luculenter inchoavit historiam» (Translatio mirifici martyris Ysidori a Chio insula in civitatem Venetam, in Recueil des historiens des Croisades. Historiens occidentaux, V, Parigi 1895, p. 340). Il racconto della spedizione scritto da Giacomo non è giunto fino a noi e la Translatio di Cerbano è l'unico testimone della sua esistenza: è probabile che i due si conoscessero personalmente e forse anche Giacomo, come Cerbano, operava presso la corte costantinopolitana (Petrusi 1974). L'epiteto «Grecus», in questa prospettiva, potrebbe assumere valore geografico: è possibile che Giacomo fosse cittadino di Venezia-in-Grecia, la colonia veneziana di Bisanzio. Forse anche lui, come Cerbano, era un funzionario a servizio dell'imperatore bizantino: alla corte di Costantinopoli i traduttori degli editti imperiali erano, di frequente, degli occidentali e il grande letteralismo che caratterizza le versioni latine delle opere di Aristotele realizzate da Giacomo potrebbe derivare dalle rigide norme traduttorie in vigore presso la cancelleria imperiale (Brams 2003). Anselmo di Havelberg (Dialogi, PL 188, 1163) ricorda che un tale «Iacobus Venetus» partecipò al concilio tenutosi a Costantinopoli il 3 aprile del 1136, nel quale si discusse il problema della processione dello Spirito Santo e un personaggio chiamato «Iacobus Veneticus Grecus philosophus» compare come autore di un responso inviato nel 1148 all'arcivescovo di Ravenna e conservato in un codice della Biblioteca Estense di Modena (alfa.P.4.9, f. 25): il testo del responso riporta alcuni passi tradotti dal greco nei quali si riscontrano elementi propri della tecnica versoria utilizzata nella traduzione latina degli Analytica Posteriora attribuiti al nostro autore in una nota marginale del codice 253 conservato presso il Balliol College di Oxford (f. 242r) (Minio-Paluello 1952).
Giacomo Veneto, infatti, si occupò della traduzione del corpus filosofico aristotelico: egli avrebbe tradotto gli Analitici Secondi, la Fisica, la Metafisica (ll. I-IV.4), il De anima, la maggior parte dei Parva naturalia e un'introduzione alla Fisica di Aristotele nota, dal Duecento fino al Cinquecento, come De intelligentia; per alcune di queste opere egli avrebbe reso in latino anche gli scolii che trovava nei suoi manoscritti greci ed è possibile che risalgano a lui anche i frammenti di una versione medievale anonima delle Confutazioni sofistiche (Brams 2003). Nessuno di questi testi, però, gli viene attribuito esplicitamente dai manoscritti: le attribuzioni sono state effettuate sulla base delle testimonianze esterne e dei criteri interni (Minio Paluello, AL VII 1, xv-xx).
La prima testimonianza della diffusione delle sue traduzioni si trova nella Chronica di Robert de Torigny, abate di Mont-Saint-Michel: egli ricorda un chierico di Venezia di nome Giacomo che aveva tradotto in latino e commentato i Topici, gli Analitici Primi e Secondi e le Confutazioni sofistiche, sebbene vi fosse una traduzione più antica di questi libri (Chronica, PL 160,443; Howlett 1889,114); la nota di Robert de Torigny fu scritta tra il 1157 e il 1169; l'autore, però, la inserisce nella cronaca in uno spazio vuoto tra il racconto degli avvenimenti del 1128 e del 1129, segno del fatto che, per l'abate, le traduzioni risalivano a quel periodo (Minio Paluello 1952, 194-95).
Le versioni latine di Giacomo ebbero grande diffusione nel corso del XIII e del XIV secolo e furono utilizzate, fra gli altri, da Roberto Grossatesta, da Tommaso d'Aquino e da Ruggero Bacone; nella seconda metà del secolo scorso esse sono state in larga misura pubblicate in edizione critica nella collana dell'Aristoteles Latinus. [M. Ferroni]