Edizione di riferimento:
Ammiani Marcellini Rerum gestarum libri qui supersunt, edidit W. Seyfarth, Leipzig 1978 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana).
L’opera di Ammiano Marcellino, intitolata Res gestae secondo il codex Vaticanus Latinus 1873, si componeva forse, in origine, di trentuno libri, di cui attualmente sono posseduti soltanto i diciotto conclusivi (14-31), che trattano del venticinquennio compreso fra il 353 (nomina di Gallo e Giuliano a Cesari, nonché inizio della carriera militare di Ammiano) e il 378 (anno della battaglia di Adrianopoli, in cui l’imperatore Valente e due terzi del suo esercito vennero annientati dai Goti). Ma, poiché in conclusione della propria opera (31, 16, 9) l’autore stesso asserisce di aver preso le mosse, nell’esposizione dei fatti, a principatu Caesaris Nervae (cioè dal punto in cui si era interrotta la narrazione di Tacito, del quale pertanto si propone come continuatore), resta incerto se i primi tredici libri delle Res gestae, per noi perduti, coprissero cursoriamente più di duecentocinquant’anni di storia (96-353 d.C.), come ritengono i più, oppure se Ammiano avesse composto, come pure è stato supposto (Michael, Rowell), due opere storiche distinte, la prima (dal principato di Nerva a Costantino) completamente perduta e la seconda, a noi pervenuta mutila dei primi tredici libri, dedicati al periodo compreso fra l’ascesa (306) o la morte (337) di Costantino e lo scontro finale fra Costanzo II e Magnenzio (353). Si è pure supposto (Barnes) che l’opera di Ammiano fosse unica, ma originariamente composta di trentasei libri, di cui si sarebbero conservati i diciotto cocnclusivi, mentre sarebbero andati dispersi gli iniziali diciotto, dedicati, i primi sei a una breve rassegna dell’impero romano da Nerva a Diocleziano, e i restanti dodici all’età di Costantino e dei Costantinidi. La stesura delle Res gestae, cui Ammiano attese per un trentennio della propria esistenza, andò probabilmente intensificandosi nel quindecennio 380-395, durante il quale l’autore, stabilitosi a Roma, ebbe la possibilità di sfruttare la ricca documentazione libraria e d’archivio della città, producendosi in letture pubbliche dell’opera e riscuotendo successo soprattutto presso gli alti funzionari e i raffinati burocrati imperiali, se dobbiamo dare credito alla già menzionata lettera di Libanio (1063 Förster) risalente al 392 (Matthews, Frakes, Viansino, Rohrbacher).
Dato il silenzio in proposito dello storico, risulta assai difficile definirne le fonti: verosimilmente diari di guerra, lettere, panegirici e forse la perduta Storia di Eunapio, oltre a notizie derivanti dalla sua esperienza personale, e da informazioni raccolte fra i protagonisti degli eventi esposti, quali Ursicino e Giuliano. Erede della grande storiografia e della letteratura classica in genere, Ammiano mostra di conoscere e fare propria la lezione di Tucidide e di Polibio, con i quali condivide la ricerca della verità, l’interesse per l’autopsia, per le testimonianze di prima mano e per il racconto dei grandi fatti politici e militari, la scelta di evitare le minutiae (cui tuttavia non rinuncia mai completamente). Ma non dimentica neppure l’eredità erodotea (e sallustiana), inserendo nella propria narrazione ampie e succose annotazioni di carattere biografico, e anche numerosi excursus di sapore geografico, etnografico e talora persino paradossografico, non esenti da spiccato interesse per la magia, l’astrologia, l’occultismo. Ma modello di riferimento è in particolare Tacito, alla fine delle cui Historiae Ammiano riconduce, come si è detto, l’inizio della propria opera. Al predecessore (come del resto a Livio) lo accomunano non solo l’impostazione moralistica e drammatica della narrazione, la caratterizzazione psicologica dai toni talora cupi dei personaggi, ma anche l’ammirazione per Roma e il suo impero (che continua a ritenere aeterni) e il disprezzo per quanti ne hanno provocato la profonda crisi morale, che descrive con toni amari e fortemente pessimistici. Dunque una storia, quella ammianea, che riprende e sintetizza ecletticamente molti stilemi della precedente tradizione storiografica e letteraria greca e latina; ma anche una storia, nel panorama culturale del IV secolo, in controtendenza rispetto all’ormai vasta circolazione di breviari, di epitomi, di opere cronografiche, redatti (alcuni per incarico dello stesso imperatore Valente) per colmare le gravi lacune di conoscenza di una classe politica e burocratica neo-emergente, spesso tanto ignorante, quanto corrotta e inefficiente. L’atteggiamento critico assunto verso questa produzione ha guadagnato ad Ammiano il ben noto appellativo di “the lonely historian” (Momigliano).
Le Res gestae, che, come è stato detto (Sabbah), non disdegnano il racconto di taglio autobiografico delle avventure dello storico stesso nelle vesti di giovane ufficiale, si soffermano a lungo soprattutto sulla persona e le imprese dell’imperatore Giuliano, di cui è tracciata una biografia, che sfocia talora in aperto panegerico. Il giovane principe è rappresentato in veste di “nuovo Alessandro”, avverso ai Persiani e diffusore della paideia greca fra i barbari; è ritenuto capace di arrestare (o forse piuttosto di ritardare), grazie alle sue doti intellettuali, morali, ma anche militari, il processo distruttivo, cui Roma sembra ormai inesorabilmente avviata, come suggerisce la comparsa in scena di Unni e di Goti nell’ultimo libro dell’opera, in un drammatico affresco di storia destinata ad assumere contorni universali. Di Giuliano, tuttavia, lo storico mostra di non condividere le scelte politiche più intolleranti: in particolare la crudele e settaria avversione per il cristianesimo, cui, invece, egli guarda con un certo rispetto, definendolo “religio absoluta et simplex” (21, 16, 18), che “nihil nisi iustum suadet et lene” (22, 11, 5), senza mancare tuttavia di giudicarlo talora con ironia, mai troppo manifesta, come era in uso fra numerosi pagani di fine IV secolo (Kelly).
In realtà tema centrale per eccellenza delle Storie di Ammiano è l’impero romano, cui lo storico guarda, con chiaro e ingenuo ottimismo, anche dopo la disfatta di Adrianopoli, come a un organismo politico ancora ben lontano dalla propria fine (Matthews).
Assai controversa risulta la conclusione di sapore autobiografico dell’opera, una sorta di sphraghis, attraverso la quale lo storico si rivolge al proprio lettore, autoqualificandosi miles quondam et Graecus, ma si rivolge anche ai suoi successori esortandoli a procudere linguas ad maiores … stilos. Comunque si vogliano interpretare (Matthews, Blockley, Barnes, Kelly), le enigmatiche affermazioni ammianee costituiscono una sorta di preveggente cesura fra la propria opera, ultima a inserirsi nel solco della grande storiografia pagana in lingua greco-latina, e quelle dei successori, incapaci di seguirne l’esempio. [G. Vanotti]