Edizione di riferimento:
Sexti Aureli Victoris, Liber de Caesaribus. Praecedunt Origo gentis Romanae et Liber de uiris ilustribus urbis Romae, subsequitur Epitome de Caesaribus, recensuit Fr. Pichlmayr, editio stereotypa correctior editionis primae addenda et corrigenda iterum collegit et adiecit R. Gruendel, Leipzig 1970, 77-129 (I ed. 1911) (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana).
L’opera compare nei manoscritti sotto il lungo titolo di Libellus de uita et moribus imperatorum breuiatus ex libris Sexti Aurelii Victoris a Caesare Augusto usque ad Theodosium e ciò ha fatto sì che essa fosse concepita per molti secoli come un’epitome dello scritto di Aurelio Vittore, forse redatta dal medesimo. Nel 1579 grazie ad Andrea Schott videro la luce le Aurelii Victoris historiae abbreuiatae o Liber de Caesaribus e dopo tre secoli di acceso dibattito, alla fine del XIX, si giunse alla conclusione tuttora condivisa che l’opera sia anonima e che Aurelio Vittore sia da ritenere semplicemente una delle sue fonti (in particolare dei primi undici capitoli), come testimonia la menzione del suo nome nel titulus riportato dai manoscritti. Per questo la denominazione di Epitome de Caesaribus (peraltro moderna e risalente al XVIII secolo) è da ritenersi impropria, non trattandosi di un sunto del Liber de Caesaribus (anzi in alcuni passi ne costituisce un ampliamento), ma di un vero e proprio breviario (o libellus breuiatus), costruito sulla base di una molteplicità di fonti, per lo più di buona qualità, fra le quali sono state indicate, non senza acceso dibattito, oltre ovviamente ad Aurelio Vittore, la enigmatica Kaisergeschichte postulata da Enmann, Mario Massimo, gli Annales di Nicomaco Flaviano ed Eutropio. L’opera si compone di quarantotto capitoli, che abbracciano gli anni compresi fra la battaglia di Azio (settembre 31 a.C.) e la morte di Teodosio (gennaio 395 d.C.). Essi sono impostati secondo lo schema biografico svetoniano nei primi trentotto capitoli (da Augusto a Caro); secondo un racconto storiografico continuo negli ultimi dieci (da Diocleziano a Teodosio). A quest’ultimo imperatore è dedicato il capitolo conclusivo (cap. 48), che per la sua ampiezza e per il tono fortemente encomiastico sembra ispirarsi ai panegerici pronunciati da Temistio, Pacato e Simmaco. Se la dipendenza da Simmaco e, come si è detto, da Nicomaco Flaviano fosse vera, troverebbe credito l’ipotesi che l’Epitome sia stata composta nell’entourage di Nicomaco Flaviano junior, figlio dell’omonimo storiografo e genero di Simmaco, in una data probabilmente non lontana dal 402 d.C., anno della morte di Simmaco, per perpetuarne la memoria, ma anche per fornire al giovane imperatore Onorio (e al suo reggente Stilicone) un breviario sul quale esaminare la storia romana, attraverso l’analisi delle gesta eroiche dei predecessori; non a caso l’Epitome abbonda di elogi per gli imperatori-generali, in particolare Traiano. In un momento di profonda crisi interna ed esterna dell’impero, attraverso la sua impostazione romanocentrica, filosenatoria e filopagana, l’Epitome si connoterebbe dunque anche come uno scritto dalle finalità pedagogiche, capace di invitare a contrastare i gravi pericoli del presente attraverso gli esempi di un luminoso passato. [G. Vanotti]