Edizione di riferimento:
Sexti Aureli Victoris, Liber de Caesaribus. Praecedunt Origo gentis Romanae et Liber de uiris illustribus urbis Romae, subsequitur Epitome de Caesaribus, recensuit Fr. Pichlmayr, editio stereotypa correctior editionis primae addenda et corrigenda iterum collegit et adiecit R. Gruendel, Leipzig 1970, 77-129 (I ed. 1911) (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana).
Il De uiris illustribus (DVI) ci è pervenuto attraverso un gran numero di codici, raggruppabili essenzialmente in due classi: la cosiddetta classe A comprendente due soli manoscritti (l’Oxoniensis e il Bruxellensis o Pulmannianus), in cui il DVI è associato all’Origo gentis Romanae e aiCaesares di Aurelio Vittore a formare il Corpus tripertitum e risulta composto di 86 capitoli; la classe B comprendente più di settanta codici, ove è presente il solo DVI, mancante però degli ultimi nove capitoli. Si è supposto che le due famiglie A e B discendano da un unico antico archetipo e a lungo si è discusso se la presenza in A degli ultimi nove capitoli sia frutto dell’aggiunta del tardo compilatore del corpus o, al contrario, se la loro assenza in B sia stata determinata da caduta accidentale. Mentre in passato quest’ultima è stata l’opinione prevalente, ora si tende a ritenere che il testo originario sia quello riportato in B. È da notare che i manoscritti della classe A non riportano il cap. 16 e buona parte del cap. 1, presenti invece in B.
L’opera, di taglio in parte biografico in parte storiografico, tratta del periodo compreso fra il governo dell’albano re Proca e la morte di Pompeo nella versione più breve; si estende fino alla morte di Cleopatra nella versione più ampia. Per secoli si è discusso sulla possibile paternità dell’opera; in passato essa venne attribuita soprattutto, sulla base della tradizione manoscritta, a Plinio il Giovane o ad Aurelio Vittore. Quest’ultima ipotesi, peraltro, già sul finire dell’Ottocento fu scartata da Enmann per evidenti incompatibilità di carattere stilistico. Quanto all’ipotesi dell’attribuzione a Plinio, è stata in anni non lontani ripresa; ma, sulla scia di congetture del primo Ottocento formulate da B. Borghesi, si è ipotizzato che il Plinio in questione fosse non il legato di Bitinia di età traianea, ma il suo più celebre zio di età flavia, o un autore appartenente alla sua ristretta cerchia di accoliti. Per la composizione l’autore si sarebbe ispirato da un lato ai testi degli elogia del foro augusteo, dall’altro a una fonte storiografica, dipendente dalle storie liviane (Braccesi). Tale congettura è stata rimessa in discussione dalla critica successiva, che, sulla base di una serrata analisi testuale, ha proposto diverse ipotesi fra loro contrastanti. Vi è stato chi (Bessone) si è mostrato cautamente propenso a ricondurre l’autore del DVI ai primi secoli dell’impero e a indicarne la fonte principale in una perduta epitome liviana di età tiberiana, pur non negando una dipendenza di fondo dagli elogia del foro. La stesura originale dell’operetta si sarebbe conclusa con il cap. 77, i restanti nove (78-86) sarebbero prodotto del compilatore del corpus tripertitum. Per contro, vi è stato chi (Sage) non solo ha ribadito, sulla scorta di gran parte della letteratura precedente, l’appartenenza del DVI alla tarda età imperiale, al medesimo IV secolo cui dovrebbe risalire l’intero corpus tripertitum, ma ha anche supposto che la composizione dell’operetta sia da attribuire a un dotto scoliasta. Infine è stato supposto (Fugmann) che il DVI, pur riecheggiando la storia per imagines del foro augusteo, dipenda da una fonte biografica: si tratterebbe di un excerptum dai perduti Viri illustres di Igino. Quanto ai capp.78-86, non sarebbero frutto dell’aggiunta del compilatore del corpus tripertitum, ma apparterrebbero all’opera originale, non divergendo sostanzialmente dai primi 77. [G. Vanotti]