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Edizione di riferimento:
Sexti Pompei Festi De verborum significatu quae supersunt cum Pauli Epitome, Thewrewkianis copiis usus edidit Wallace M. Lindsay., Stutgardiae et Lipsiae 1997 (1913) (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana).
Il De verborum significatu ha suscitato l’interesse di molti eruditi e studiosi a partire dal XV sec., sia per la ricchezza dei contenuti sia per i problemi legati alla sua originalità e alla sua tradizione manoscritta. Da una parte, si annovera una quantità notevole di notizie antiquarie, storiche, sociali, antropologiche, giuridiche, religiose e geografiche sulla Roma repubblicana, ricavate da preziose fonti antiche oggi perdute che permettevano di confrontare istituzioni, usi e costumi del passato con quelli contemporanei; Festo sceglieva e ordinava alfabeticamente i lemmi in base a gusti letterari che proponevano al lettore parole arcaiche ancora utilizzate e produttive nella sua epoca, quindi li corredava opportunamente con citazioni d’autore che ne chiarivano l’etimologia e le sfumature semantiche (molti di questi vocaboli erano attinti da opere di scrittori latini del III-II sec. a.C., quali Nevio, Ennio, Plauto, Cecilio Stazio, Catone, Terenzio, Pacuvio, Accio e Lucilio; numerosi passi riportati non ci sono giunti per tradizione diretta e rappresentano veri e propri frammenti non attestati altrove). Dall’altra parte, i filologi discutono ancora oggi dell’effettiva originalità dell’epitome festina rispetto al suo modello, il perduto De verborum significatu di Verrio Flacco, di cui non si conoscono due tratti fondamentali: la reale quantità di materiale recuperato dal lessicografo narbonese e la misura in cui ne è stata eseguita l’eventuale manipolazione. La prova secondo cui il catalogo sarebbe soltanto un compendio del più ampio dizionario enciclopedico del grammatico augusteo è contenuta nelle parole dello stesso Festo sotto il lemma acefalo [Poriciam]: […] cuius opinionem, neque in hoc, neque in aliis compluribus refutare minime necesse est, cum propositum habeam ex tanto librorum eius numero intermortua iam et sepulta verba atque ipso saepe confitente nullius usus aut auctoritatis praeterire, et reliqua quam brevissime redigere in libros admodum paucos. Ea autem, de quibus dissentio, et aperte et breviter, ut sciero, scribta in [h]is libris meis invenientur, <qui> inscribuntur “priscorum verborum cum exemplis” (pp. 242, 28 – 244, 1 L.). La maggior parte dei filologi ritiene che in questo passo Festo palesi la sua intenzione di selezionare e riassumere la vasta messe di materiale presente nell’opera di Verrio, decidendo di escludere sistematicamente i vocaboli caduti in disuso (intermortua iam et sepulta). Tra gli studiosi di epoca umanistico-rinascimentale, l’Agustín sostiene inoltre che la perifrasi priscorum verborum cum exemplis si riferisca all’epitome stessa, magari con l’obiettivo di precisarne il titolo; lo Scaligero, al contrario, è convinto che i libri priscorum verborum cum exemplis siano un’opera di Festo distinta dal De verborum significatu. Entrambi, comunque, riducono il lessicografo di Narbo a semplice epitomatore di Verrio Flacco e lo giudicano privo di qualsiasi originalità. Negli autori e nei grammatici antichi, invece, non c’è alcun riferimento alla derivazione del De verborum significatu di Festo da quello di Verrio, cosa che lascia ancora oggi aperto il dibattito sulla questione.
Per quanto riguarda la tradizione manoscritta, il testo del De verborum significatu di Pompeo Festo ci è pervenuto attraverso un solo codice dell’XI sec., il Farnesianus (F = Neap. IV A 3), scoperto nel 1436 a Spira dall’umanista e vescovo veneziano Pietro Donato e attualmente conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Quando fu ritrovato, il manoscritto era già mutilo della prima metà dei lemmi, comprendente le lettere A-L; in seguito, subì ingenti danni anche la sezione M-Z a causa di un incendio. L’intero glossario festino ci è però tramandato grazie allo storico e grammatico longobardo Paolo Diacono, che ne aveva curato un’epitome in onore di Carlo Magno tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII sec., probabilmente sulla base di un codice conservato nell’Abbazia di Montecassino. Va tuttavia precisato che Paolo riduce e modifica in maniera significativa l’originale di Festo (elimina molte voci e numerose citazioni d’autore, oltre a rimaneggiare le parti che reputa poco chiare), come si può constatare dal confronto con il codex Farnesianus. [F. Mantelli]