Edizione di riferimento:
Flavio Merobaude, Panegirico in prosa per Aezio, a cura di Antonella Bruzzone, Bari 2018.
Del Panegirico in prosa per Aezio sono rimasti quattro frammenti, di 24 24 23 24 linee ciascuno, che a partire dall’edizione di Vollmer vengono designati come IA IB IIA IIB (il numero romano indica il foglio del codice, le lettere rispettivamente il recto e il verso). I frammenti sono separati l’uno dall’altro da lacune di ca. 4 righe. Prima del frg. IA si registra la caduta di ca. 4 righe appartenenti alla stessa pagina e di un numero imprecisabile di pagine. Dopo il frg. IIB si registra la caduta di un numero imprecisabile di pagine. La caduta delle pagine iniziali ha comportato la perdita della presumibile inscriptio, ovvero del titolo dell’opera.
Le lacune di varia dimensione che intaccano il testo spesso in punti cruciali, l’esiguità del materiale pervenuto (in tutto si sono conservate, come sopra detto, 95 righe, piuttosto brevi, molte delle quali gravemente compromesse), la mancanza, di entità non quantificabile, della parte iniziale rendono piuttosto problematica sia una esatta definizione tipologica dell’orazione sia l’interpretazione di alcuni singoli passaggi.
Molto si è discusso in effetti soprattutto sul genus e sulla cronologia di quest’opera. Niebuhr, che nella prima edizione del 1823, p. 6, l’aveva titolata Oratio de laudibus Aëtii patricii, nella seconda edizione del 1824, p. 7, la presentò come prefazione in prosa del panegirico in versi per il terzo consolato di Aezio del 446.
Vollmer 1905 (pp. II-IV, e note a p. 7) dimostrò invece che si trattava di un componimento autonomo, cioè di un panegirico in prosa, che egli riteneva pronunciato nel 437 per il secondo consolato di Aezio. Va detto che il nome di Aezio non figura mai nel testo sopravvissuto (mentre figura nel panegirico poetico: cfr. v. 106 Aetium). Tuttavia lo stretto rapporto dell’autore con il generale, documentato sia in altri componimenti di Merobaude sia in altre fonti, le vicende richiamate nell’opera e gli specifici dettagli inducono senza ragionevoli dubbi a individuare in Aezio il destinatario.
Il dibattito è stato aggiornato nel 1971 da Frank Metlar Clover, il quale ha persuasivamente sostenuto che il panegirico in prosa è più precisamente una gratiarum actio, rimarcando da un lato gli elementi che sconsigliano il suo inquadramento nell’ambito della panegiristica consolare, dall’altro gli elementi che qualificano l’opera come un discorso di ringraziamento a carattere privato (Clover, Flavius Merobaudes, pp. 32-41; Clover, Toward an Understanding): Merobaude esprime ad Aezio la sua personale riconoscenza perché Aezio gli aveva propiziato (dopo varie altre gratificazioni) il conferimento, da parte di Teodosio II, di un onore altissimo (frg. IIA 2-4 me ... nuper ad honoris maximi nomen ille nascenti soli proximus imperator evexit).
Riguardo alla puntualizzazione di questo vago honoris maximi nomen sono state formulate diverse ipotesi. La più comunemente accettata è quella proposta già da Vollmer, che pensa al titolo di patricius; ma si è pensato anche a un consolato onorario e al conseguimento del rango di illustris, il grado più alto dell’ordo senatorius. Accantonata la datazione del 437, l’opera è stata ricondotta, con varie oscillazioni, al periodo fra il 438 e il 446 sulla base delle informazioni numerose, ma spesso difficili da decifrare (anche a causa delle lacune), che si ricavano dal testo stesso: Merobaude parla di sé e accenna a diversi avvenimenti storici che non sempre possono essere recepiti in maniera univoca. Un dato sicuro è il terminus post quem del 435, anno in cui all’autore fu innalzata una statua di bronzo nel foro di Traiano: lo scrittore la ricorda in frg. IIA 2-3.
Quanto ai contenuti, possono essere ricostruiti e riassunti come segue:
Frg. IA. L’autore si rivolge ad una seconda persona, Aezio, esaltando la sua integrità morale come una qualità naturale, e la sua condotta cristallina, sempre improntata ad assoluta trasparenza e lealtà, mai subordinata al controllo esterno. Sono enumerati i vari aspetti che, secondo la topica del genus panegiristico, caratterizzano la dura esistenza del generale completamente consacrata ai munera militari.
Frg. IB. Il discorso riguarda ancora le attività di Aezio in guerra, la sua incessante operosità anche nelle pause fra i combattimenti. Vengono quindi elencate le qualità morali, intellettuali e umane di Aezio. Merobaude teorizza poi sul compito dell’oratore.
Frg. IIA. L’autore dice di aver già celebrato in precedenza le imprese di Aezio, e di aver ricevuto per questo alti riconoscimenti: la cooptazione in senato, l’erezione di una statua di bronzo, e inoltre un titolo onorifico della massima importanza. Viceversa per Aezio, che ha realizzato le imprese celebrate da Merobaude, non può esserci alcuna ricompensa adeguata. Il premio per Aezio è solo nella sua coscienza; comunque il generale gode di fama, credito e consenso unanime.
Frg. IIB. Merobaude esorta Aezio a considerare la fiducia e la gratitudine straordinaria di tutto il mondo nei suoi confronti. Nessuno dubita delle informazioni positive che giungono sul conto di Aezio. Un testimone diretto racconta in prima persona di una vittoria schiacciante conseguita da Aezio sui Goti in uno scontro sanguinoso.
Il testo rimane interrotto; è difficile immaginare quante pagine siano andate perdute, cioè quanto mancasse alla fine. Un punto di riferimento potrebbe essere offerto dalla precettistica retorica relativa all’encomio tardoantico e in particolare alla presumibile presenza nel testo di determinate componenti strutturali richieste dagli schemi dei retori (vedi ad esempio Menandro di Laodicea). Tuttavia si deve tener conto di due fattori. 1) L’opera merobaudiana non è un panegirico in senso stretto, ma, come si è detto, più propriamente una gratiarum actio, si inscrive cioè in una categoria che, pur intimamente connessa alla laudatio, mostra sue peculiarità specifiche anche sul piano strutturale. 2) Lo stato fortemente lacunoso del testo comporta l’eventualità che certi punti tematici fossero stati da Merobaude già toccati in precedenza. Pertanto, se si volesse comunque ammettere che con il frg. IIB si stesse in prossimità dell’epilogo, bisognerebbe supporre che la maggior parte del testo fosse contenuto nelle pagine iniziali che non ci sono giunte, a meno che non si ipotizzi una consistenza piuttosto limitata dell’opera, però inusuale rispetto alla prassi delle gratiarum actiones tardoantiche. [A. Bruzzone]