Edizione di riferimento:
Grammatici Latini, VI. Scriptores artis metricae. Marius Victorinus, Maximus Victorinus, Caesius Bassus etc., ex recensione H. Keilii, Hildesheim 1961, 427-546 (reprografischer Nachdruck der Ausgabe Leipzig 1874).
Plozio Sacerdote è autore di tre libri grammaticali dedicati a tre diversi destinatari, probabili membri dell’aristocrazia del tempo, come riassunto dallo stesso autore nella prefazione, la sola conservata, del terzo libro (GL VI 496, 5-497, 5): il primo a Gaianus, il secondo al padre di questi Uranius e il terzo a Maximus e Simplicius. Concepiti come tappe distinte di un unico progetto editoriale, questi tre libri hanno tradizioni manoscritte diverse. I primi due sono conservati unicamente nella sezione tardoantica del Neapolitanus Latinus 2. La caduta materiale del I, del II e di gran parte del V fascicolo ha comportato l’acefalia del primo libro e la perdita di un’abbondante parte del secondo (la cui acefalia è invece risalente almeno all’antigrafo del codice napoletano), solo parzialmente recuperata grazie ai fragmenta Taurinensia. Riscoperto nel 1493 nel monastero di Bobbio insieme ad altri manoscritti grammaticali per opera di Giorgio Galbiate, il codice giunse nelle mani dell’umanista Aulo Giano Parrasio che fece realizzare un apografo integrale di Sacerdote contenuto nel Neap. IV A 17 agli inizi del XVI secolo. Per l’editio princeps si devono attendere però gli Analecta grammatica di Eichenfeld-Endlicher del 1837, sulla cui recensio fu basata sostanzialmente l’edizione critica presente nel VI volume dei Grammatici Latini di H. Keil, che peraltro non ebbe modo di vedere personalmente il manoscritto. I più antichi testimoni del terzo libro sono invece tre codici carolingi che lo tramandano integralmente: il Valentianensis, Bibl. Munic. 411 [393] di IXex. secolo da Saint-Amand, il coevo Leid. Voss. Lat. O 79 di Reims e il Par. Lat. 13955 olim Sangermanensis da Corbie della seconda metà del IX secolo (che omette quasi totalmente gli exempla Graeca): tutti non molto distanti dall’archetipo comune, da cui si dipartono due rami che oppongono il Valentianensis al subarchetipo comune agli altri due codici, (Simoni 1990). Dal Leidensis fu ricavata la copia di J. Cujas, il Leid. Scalig. 37 (utilizzata da Scaligero per alcune congetture), di cui un apografo è il Leid. Scalig. 53 (Keil GL VI 418 e sgg. e Schmidt 1993, p. 129). L’editio princeps si deve a van Putschen (1605), il quale si fondò sulla copia del Valentianensis realizzata da Schott e van der Wouwer. Sulla princeps si basò l’edizione di Gaisford del 1837, migliorata dalle lezioni estratte dal Leidensis ad opera di Petrus Bondamus. Ma fu soltanto grazie a Keil che il terzo libro, il cui testo per la prima volta era frutto di una visione diretta dei tre codici carolingi, si ricongiunse finalmente al resto dell’opera sacerdotea. Il primo libro è un limpido esempio di Schulgrammatik, suddivisa in tre parti. La prima, costituita dagli Anfangsgründe, è materialmente caduta insieme all’inizio della seconda, contenente il nomen e il pronomen, e che così principia ex abrupto con la derivazione dei nomi plurali dall’ablativo singolare (GL VI 427, 4-428, 28). Seguono poi le restanti partes orationis (428, 29-447, 12) secondo un ordine (praepositio, verbum [con la coniugatio e la declinatio], adverbium, participium, coniunctio e interiectio) che, per l’apparentamento verbum-adverbium, supera il modello varroniano di netta divisione tra le parti variabili da quelle invariabili e anticipa l’organizzazione di Donato. Tale disposizione non manca tuttavia di incoerenze strutturali come la posizione della praepositio o la presenza isolata del septimus casus dopo l’interiectio (447, 13-28), o ancora di un gruppo isolato di fenomeni legati alla versificazione (448, 1-449, 12: sincope, sinalefe, dieresi, sineresi, tmesi, enallaxis), tutti segni evidenti di una manipolazione seriore. La terza e ultima parte del manuale si apre con i difetti della Latinitas, solecismo e barbarismo (449, 15-451, 23), e si conclude con una grande sezione presentata sotto l’unico titolo tràdito de metaplasmis vel figuris (de ceteris vitiis, de schematibus e de tropis sono intestazioni aggiunte da Keil sulla base di altri grammatici), dove è stipato un copioso elenco di figure retoriche (451, 24-470, 20), che trovano una selezione e migliore organizzazione nei successivi trattati di Donato, Carisio e Diomede. Il secondo libro appartiene alla tipologia dei testi del cosiddetto regulae-type. Si tratta di un manuale sulle regole flessionali del nomen e del verbum, che, a dispetto di quelli della stessa categoria, preferisce adottare uno stile discorsivo che motivi la ratio flessiva, evidenziando talvolta le possibili eccezioni, piuttosto che presentare lunghe tabulazioni di declinazioni e coniugazioni. Il manuale è suddiviso in tre parti. Nella prima, dedicata al nome, dopo aver presentato per ognuna delle cinque declinazioni le uscite dei singoli casi (porzione che noi recuperiamo grazie alla versione parallela dei Catholica Probi: GL IV 3, 4-6, 24), Sacerdote organizza la trattazione secondo un alfabetario generale in base a cui dispone i nomi a seconda della lettera finale del nominativo (471, 2-483, 34, la lacuna da -ho a -nas, per la perdita del quinto fascicolo è compensata parzialmente dai fragmenta Taurinensia), per poi associare ogni terminazione con le corrispondenti uscite del genitivo. La seconda parte sul verbum vede una distinzione tra le forme uscenti con vocale e quelle uscenti con consonante davanti a -o: le prime ordinate alfabeticamente in base alla lettera precedente le desinenze -eo, -io e -uo (484, 2-490, 4), le seconde in base alla consonante precedente la -o (-bo, -co, -do ecc.: 490, 5-491, 32); e infine un paragrafo sui verbi in -or (492, 1-25). Anche in questo caso il grammatico si limita a riportare la prima personale singolare del presente e del perfetto indicativo. Il secondo libro è concluso con una piccola sezione di argomento del tutto differente (492, 26-495, 26). Si tratta di un breve prontuario sull’uso delle structurae, ossia delle clausole finali con due, tre o quattro sillabe, da adottare nella composizione in prosa secondo i gusti contemporanei. E a tale scopo, in chiusura, il grammatico fornisce per le structurae trisyllabae e quattuor syllabarum due liste di exempla: il primo con clausole inventate da Sacerdote, il secondo con esempi tratti da orazioni ciceroniane. A completamento delle sue Artes, Sacerdote aggiunge un trattato sulla metrica. Dopo la prefazione e una propedeutica sezione de pedibus (496, 5-500, 3), il grammatico divide i metra in simplicia e composita (500, 4-502, 4). Tra i primi riconosce quelli generalia, ossia i metra prototypa: dattilico (502, 5-517, 24), giambico (517, 25-528, 28), trocaico (528, 29-531, 29), anapestico (531, 30-534, 7), coriambico (534, 8-537, 14), antispastico (537, 15-539, 23), ionico (539, 24-542, 16: suddiviso in a maiore e a minore), peonico (542, 17-543, 11); seguono poi i metra composita (543, 12-545, 14). Il libro si conclude con una definizione degli asinarteti (545, 15-546, 9), incipit di un capitolo probabilmente incompleto. Nonostante la vastità dell’argomentazione è indubbio che la metrica fosse un argomento in cui il grammatico era poco ferrato, visto i numerosi errori prosodici segnalati da Keil, GL VI p. 423 n. * ‒ tanto grossolani da costringere già Scaligero a una serie di emendamenti (vd. il profilo biografico) ‒, i quali gli valsero da parte di Müller 1872, p. 285, il titolo di «unwissendste Metriker der Römer». Nonostante ciò, l’opera presenta una ricca messe di versi latini e il più alto numero di versi greci tra tutti gli altri grammatici, che Sacerdote ha tratto ora da Iuba (Hense 1875, pp. 143-145), ora da fonti greche direttamente consultate (543, 16: de graecis nobilibus metricis lectis a me et ex his quicquid singulis fuerat optimum decerpto) ‒ che riecheggiano spesso l’opera di Efestione (Westphal 18672, pp. 133 e sgg.) ‒, ora, infine, da lui personalmente composti (per es. GL VI 517, 6; 520, 20; 525, 10; 529, 27). Questi tre libri hanno avuto diversa fortuna. La diffusione del I libro, se si eccettuano le reminiscenze sacerdotee ancora nell’Ars Bernensis e nell’Ars Ambrosiana (Law 1982, Holtz 1995 e Löfstedt 1980), è stata presto ostacolata dalla più efficace e ordinata ars di Donato. Al contrario, la sintesi sul nome e il verbo fornita nel secondo libro era ancora sovente utilizzata da Prisciano nella sua Ars, seppur nella veste dei Catholica Probi. Infine, il terzo libro è giunto a riflettersi nel De Pedum Regulis di Aldelmo per il tramite dell’apocrifa Epistula Sancti Hieronimi De nominibus pedum che ricava alcune etimologie dei piedi metrici dal de pedibus sacerdoteo (Law 1983, pp. 53-55). [Andrea Bramanti]