Edizione di riferimento: Q. Terentii Scauri De orthographia, a cura di Federico Biddau, Hildesheim, Weidmann, 2008
Il De orthographia di Terenzio Scauro è la più antica opera sull’ortografia giunta dal mondo classico, preziosa testimonianza di precedenti e coeve riflessioni linguistiche, nonché di forme che rinviano a idiomi come il sabino e l’osco, e regolarmente citata e utilizzata fino alla tarda antichità. Il trattato, acefalo, ma solo, verosimilmente, della prefazione e di una iniziale definizione dell’ortografia, presenta una struttura ordinata, in cui, attraverso una serie di exempla, Scauro delinea anzitutto le quattro categorie di errori ortografici (adiectio, detractio, immutatio, annexio) e le tre regole per correggerli (historia, originatio, proportio); una sezione sui rapporti tra le lettere (affinità reciproche; combinazioni all’interno di sillabe) introduce poi alla parte più ampia e dettagliata dell’opera, con l’esame di singole questioni ortografiche, affrontate secondo le categorie di errori indicate all’inizio della trattazione. L’apostrofe finale al dedicatario fa da chiaro pendant alla dedica iniziale, oggi perduta. Notevoli sono i punti di contatto fra il trattato e l’omonima opera di Velio Longo, pressoché contemporaneo di Scauro: tali rispondenze, importanti puntelli per la sicura collocazione cronologica del testo, e le citazioni di passi scaurini da parte di grammatici successivi (Carisio, Diomede, Prisciano) consentono oggi di accettare in sostanza senza riserve l’attribuzione del De orthographia a Scauro, così come attestata dai testimoni manoscritti (di parere diverso Tempesti, che lo ritiene un prodotto più tardo). Nel trattato, ad alcune citazioni da Virgilio e Lucrezio si affiancano rinvii testuali a Lucilio (351; 352-355; 358-61 Marx), la citazione del fr. 2 Morel del carmen Saliare e della Lex XII tab. 1,7.
Diverse sono le fonti cui Scauro attinge: accanto alla regolare e prevedibile presenza di Varrone, è possibile considerare o ipotizzare, quali modelli e antecedenti per diverse questioni affrontate nel De orthographia, Verrio Flacco e Remmio Palemone, quest’ultimo anche per il chiaro tramite di Quintiliano; a tratti emerge dall’operetta anche un confronto polemico con Anneo Cornuto, così come è plausibile l’utilizzo di autori greci. Il trattato, stando anche alle testimonianze di Carisio, rivela nell’autore un grammatico purista, interessato agli arcaismi, e dunque in linea con le tendenze linguistiche di età adrianea (Baschera).
Nove manoscritti e due stampe consegnano il testo del De orthographia. Dei codici, sei contengono solo le prime righe del testo: Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 13025, lat. 7521 e Nouv. acq. lat. 763) ; München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14252; San Gallo, Stiftsbibliothek, 249; Leida, Bibliotheek der Rijhsuniversiteit, Voss. lat. Q. 33; i sei testimoni presentano tutti una porzione di testo pressoché identica e fanno quindi ipotizzare un archetipo comune. Altri tre codici conservano quasi l’intero testo e si pongono dunque come fondamentali per la sua constitutio: Berna, Burgerbibliothek, 330; Città del Vaticano, Bibl. Apostol. Vaticana, Pal. lat. 1741 e Vat. lat. 1491; delle due stampe, la princeps fu allestita da Alessandro Gaboardo, professore di humanae litterae a Pesaro, e edita nel 1511 da Girolamo Soncino; l’editio secunda, curata da Johannes Sichardt, professore di retorica, fu pubblicata a Basilea nel 1527. Il codice bernese, il Palatino e le due edizioni consegnano anche, di seguito al testo scaurino, un lungo frammento acefalo (Keil, GL, VII, 29, 3-33,13), di argomento grammaticale ma indipendente dall’Orthographia, che Biddau denomina Appendix Scaurina e per il quale la paternità di Scauro è verosimilmente da escludere (ancora Keil pubblicava l’Appendix in coda al testo di Scauro: discussione in Biddau, LXVIII-LXXI).
Alcuni anni dopo la pubblicazione della princeps, l’umanista Giano Parrasio lascia importanti interventi emendatori e congetture su una copia di essa, della quale si serve poi il bellunese Giovanni Pietro dalle Fosse (Pierio Valeriano), che nelle Castigationes Vergilianae del 1521 rinvia spesso alle teorie di Scauro e divulga anche congetture parrasiane. Di seguito, all’edizione sonciniana si preferirà la stampa di Basilea e sul testo di Scauro si eserciterà la perizia filologica e grammaticale di diversi studiosi (dal Fabricius a Ludovico Carrione); la successiva edizione dell’opera nei Grammatici Latini del van Putschen (1605) diventa testo di riferimento per più di due secoli. Sarà poi Heinrich Keil, che, inserendo il testo nel corpus dei grammatici, utilizza insieme con la stampa di Basilea il codice di Berna, il Vaticano Palatino e alcuni degli estratti, segnando così un’ultima tappa importante per l’assetto del trattato, fino alle contemporanee, più agguerrite indagini e ricostruzioni testuali. [Anita Di Stefano]