Edizione di riferimento:
Rufini Antiochensis Commentaria in metra terentiana et de compositione et de numeris oratorum, edizione critica a cura di P. D'Alessandro, Hildesheim - Zürich - New York 2004 (Collectanea Grammatica Latina 3), 21-38.
Il breve commentarium, che raccoglie testimonianze attestanti che il numerus non è estraneo al discorso prosastico degli oratori, si presenta nei manoscritti di seguito al precedente in metra Terentiana. Marca una separazione fra i due testi soltanto quella che costituisce più verosimilmente una subscriptio al testo che precede, piuttosto che una inscriptio dedicatoria di quello de compositione et metris oratorum che segue (come ritiene plausibile Kaster 1988, p. 351 nr. 130). Questa sezione sulle clausole metriche è introdotta da sessantotto esametri di Rufino stesso, che si presentano però distinti in gruppi, verosimilmente per l’intervento successivo di un excerptor, che li cita ripetendo a breve distanza il titulus completo (Versus Rufini v.c. litteratoris de compositione e de metris oratorum), da cui si evince l’arbitrarietà del titolo congetturale assegnato al commentarium anepigrafo. È ipotizzabile che i versi appartenessero a un’altra opera di Rufino sullo stesso argomento o, più probabilmente, che l’Autore avesse seguito la prassi, attestata anche per opere tecnico-scientifiche e artigrafiche tardoantiche, di corredare il trattato in prosa con una versione poetica.
Cicerone retore rappresenta nell’opuscolo l’auctoritas principale (dal quale è ricavata anche la lista di autori greci che hanno scritto sull’argomento), cui si aggiungono Quintiliano, Carisio, Diomede e altri, citati senza alcun riguardo per le cronologie relative e le diverse personalità, essendo posti sullo stesso piano l’auctor classico e il grammaticus tardo. Spicca fra questi ultimi il personaggio, non altrimenti noto, di Pompeo Messalino, autore di un’opera analoga de numeris et pedibus oratorum, dalla quale Rufino trascrive una curiosa analisi metrica dell’incipit delle Historiae di Sallustio (frg. 1 La Penna = p. 34,22 d’A.). Le condizioni in cui l’opera ci è giunta, molto probabilmente sottoposta all’intervento maldestro di un excerptor, rendono ragione di molte stranezze e incertezze che il testo solleva, nonostante l’indubbio contributo di notizie e testimonianze che esso fornisce, per le quali Rufino resta fonte preziosa e attendibile. È il caso, ad esempio, di un presunto frammento del De re publica (su cui, da ultimo, d’Alessandro 2002).
Il testo di Rufino è tradito da 28 manoscritti, di cui almeno sette sono databili al IX secolo e contengono anche le Institutiones di Prisciano e/o i suoi tre opuscoli ad Symmachum di argomento affine (de figuris numerorum, de arte metrica e de rhetorica), mentre altri sette risultano codices descripti. Rispetto all’edizione parziale e ‘provvisoria’ di Halm 1863 (relativa solo alla seconda sezione dell’opera, pp. 575-584: Versus Rufini V. C. litteratoris de compositione et de metris oratorum), basata su tre codici (Paris. Lat. 7496 e 7501, collazionati per lui da Keil, e Monac. Lat. 18375), e a quella integrale di Keil 1874 (GL VI, pp. 547-578), che si avvalse principalmente di quattro testimoni (i due succitati mss. della BnF, più il Paris. Lat. 7498 e il Vat. Reg. Lat. 733), quella curata da Paolo d’Alessandro nei CGL è fondata su una ricognizione completa della tradizione manoscritta. L’editore critico ha individuato due subarchetipi, α e β, il primo dei quali è rappresentato direttamente da quattro testimoni più antichi e due più tardi, mentre il secondo, che reca una traccia migliore dei passi greci, è bipartito fra il Paris. Lat. 7501 del IX secolo e il maggior numero dei manoscritti, raccolti nella famiglia γ, da cui dipendono le edizioni umanistiche. Una posizione a sé stante rispetto ai due subarchetipi è assegnata al ms. Einsiedlensis 339, della seconda metà del IX secolo, ritenuto il testimone più vicino all’archetipo e caratterizzato da lectiones singulares, mentre un altro ms., il Palat. Lat. 1741, sebbene del XV secolo, presenta delle lezioni corrette e una recensione diversa, che potrebbero anch’esse risalire a un antico codice perduto. L’archetipo doveva presentare diversi errori, alcuni dei quali sanati già in epoca umanistica, mentre vi sono almeno tre loci desperati, uno dei quali (p. 20,3 d’A. = 565 K.: †sacerdos qui et domatus†), nella sequenza finale di auctores attestanti la presenza di una misura metrica nelle opere drammatiche, ha sollecitato diversi interventi dei filologi, che perlopiù intravedono nella corruttela i nomi di Plozio Sacerdote ed Elio Donato.
L’opera di Rufino fu pubblicata la prima volta nel 1470, nell’editio princeps di Prisciano realizzata a Venezia da Vindelino da Spira. [A. Lagioia]