Edizione di riferimento:
FIRA - Fontes Iuris Romani Antejustiniani, II, 2a ed., Firenze 1968, pp. 229-257 (J. Baviera)
La Gai Institutionum Epitome, o più brevemente Epitome Gai, è un’opera anonima facente parte della Lex Romana Wisigothorum, detta anche Breviarium Alaricianum, compilazione mista di leges e iura pubblicata a Tolosa il 2 febbraio del 506 d. C. dal re visigoto Alarico II. È opinione comune che questa compilazione fosse diretta ai soli sudditi romani del regno visigoto, che allora comprendeva parte della Gallia e la penisola Iberica, ma per alcuni studiosi essa avrebbe avuto valore territoriale e non personale, vigendo così per tutti i sudditi, sia romani sia visigoti. L’Epitome Gai fu inserita nel Breviarium, tra le Novellae post-teodosiane e le Pauli Sententiae, con la denominazione di Liber Gai, mentre la denominazione di Gai Institutionum Epitome è stata data dagli studiosi moderni alla luce del confronto con le Institutiones gaiane, riscoperte nel 1816 in un palinsesto veronese. In origine, forse, essa constava di un unico libro, benché nelle edizioni moderne sia composta di due. Le differenze dell’Epitome Gai rispetto all’originale gaiano sono rilevanti: innanzi tutto l’Epitome riguarda solo i primi tre libri delle Institutiones gaiane (dedicati alle persone e alle cose), pertanto in essa manca qualsiasi riferimento alla materia processuale, alla quale è interamente dedicato il quarto libro delle seconde, così come non sono quasi mai affrontati i profili processuali degli istituti di diritto sostanziale. Ciò è spiegato dagli studiosi con l’abolizione dell’uso delle formule processuali, sancita da Costanzo II e Costante nel 342 d. C., che rese evidentemente obsoleti sia il quarto libro delle Institutiones dedicato alle actiones sia le trattazioni delle tutele giudiziarie dei vari istituti, che si trovano nel resto dell’opera gaiana. D’altro canto, i pochi passi dell’Epitome Gai nei quali le materie esaminate presentano agganci con profili processuali denotano un evidente aggiornamento rispetto all’archetipo, in coerenza anche con gli sviluppi post-classici degli istituti. Altri aspetti di differenziazione tra le due opere sono costituiti dal fatto che nell’Epitome Gai non sono trattati alcuni istituti fondamentali del diritto romano classico, non sono riportate dispute giurisprudenziali sulle quali Gaio si era soffermato in maniera dettagliata e, infine, è diversa la sistematica delle materie trattate. Sulla base di tali elementi, Archi sostenne, in una monografia fondamentale pubblicata nel 1937, che l’Epitome Gai costituirebbe un adattamento per scopi pratici ricavato non dal testo originario delle Institutiones gaiane, ma da una successiva parafrasi di queste, molto più ampia dell’Epitome Gai e realizzata per fini didattici. Secondo lo studioso fiorentino, l’Epitome Gai sarebbe stata scritta in Gallia prima del 428 d. C., poiché vi si ignora la costituzione di Teodosio II e Valentiniano III emanata in quell’anno (C. Th. 3.13.4), con la quale si abolisce la dotis dictio; tale argomento è tuttavia ritenuto irrilevante da altri studiosi, propensi a collocare la composizione dell’opera nella seconda metà del V secolo. Archi osservò anche come l’Epitome Gai costituisca una Interpretatio delle Institutiones di Gaio assai simile alle Interpretationes della Lex Romana Wisigothorum e che sarebbe stata inserita in tale compilazione, poiché conosciuta e dotata di una propria autorità presso i contemporanei. I compilatori del Breviarium Alaricianum non sarebbero in alcun modo intervenuti sul testo dell’Epitome Gai e proprio le lacune che essa denota, non colmate in sede di compilazione, attesterebbero le sue finalità pratiche e non scolastiche. I risultati raggiunti da Archi si pongono come assolutamente innovativi rispetto alle precedenti tesi enunciate sull’opera, tra le quali si possono richiamare quella che ne afferma la finalità didattica, sostenuta, tra gli altri, da Hitzig (per il quale i compilatori avrebbero anche apportato dei tagli significativi), e da Fitting (secondo il quale costoro non si sarebbero limitati a espungere parti del testo, ma anche ad apportarvi delle modifiche), e quella di Conrat, che ne afferma le origini visigote, connesse alla stessa compilazione del Breviarium Alaricianum. Nella seconda metà del secolo scorso alcuni studiosi si sono discostati, almeno in parte, dalla ricostruzione di Archi: in particolare, secondo Lambertini, il quarto titolo del secondo libro dell’Epitome, ‘De substitutionibus et faciendis secundis tabulis’, non avrebbe fatto parte del testo inserito nel Breviarium Alaricianum, ma sarebbe stato aggiunto successivamente alla pubblicazione di questo e adduce, a sostegno della propria tesi, argomenti dedotti dalla tradizione testuale della compilazione. Infatti la Lex Romana Wisigothorum (o Breviarium Alaricianum che dir si voglia) ci è nota grazie a numerosi manoscritti, assai diversi tra loro per epoca di redazione, caratteristiche e luogo di provenienza: Haenel, per la sua edizione (Lex Romana Visigothorum ad LXXVI librorum manuscriptorum fidem recognovit, prolegomenis instruxit Gustavus Haenel, Lipsiae 1849), ne studiò settantasei, compilando accurate schede descrittive per ciascuno di questi, materiale poi in larga misura utilizzato da Mommsen e Meyer per la loro edizione del Codex Theodosianus. Ebbene, il titolo ‘De substitutionibus et faciendis secundis tabulis’compare solo in cinque manoscritti, nessuno dei quali fa parte del novero di quelli più antichi, che Haenel chiama ‘vetustissimi’. Tra questi ultimi, si devono segnalare il Monacensis 22501, del VII secolo, che è stato ritenuto da Ritter un authenticum exemplar della Lex Romana Wisigothorum inviato a un conte del regno, e il Codex Parisinus 4405, della fine del IX secolo e di provenienza gallica, che conserva integralmente la Praescriptio Breviarii e l’Auctoritas Alarici (o Commonitorium) e in ragione di ciò è reputato una diretta filiazione del libro autentico inviato da Alarico II al conte Timoteo. Da tale Commonitorium risulta, appunto, come furono predisposte più copie autentiche dell’exemplar serbato nell’archivio di Alarico II, destinate ai comites del regno, che presiedevano i tribunali delle contee. Pertanto, secondo Lambertini, gli esperti di diritto che avrebbero redatto la Lex Romana Wisigothorum avrebbero consapevolmente escluso dall’Epitome Gai il titolo in questione, forse perché lo ritenevano non idoneo ai fini perseguiti dalla compilazione. Questo dato mostrerebbe, però, come i compilatori – contrariamente a quanto sostenuto da Archi – sarebbero intervenuti sul testo dell’Epitome Gai (così come sugli altri testi utilizzati per la realizzazione della Lex Romana Wisigothorum) e avrebbero pertanto sottoposto l’opera a una sorta di revisione, intervenendo, forse, anche su altri brani del testo in loro possesso, benché di ciò non forniscano prove i manoscritti giunti fino a noi. Anche altri studiosi hanno preso le distanze dalla posizione di Archi, riproponendo la tesi di una funzione scolastica dell’Epitome Gai, già sostenuta alla fine del XIX secolo; tra questi, Liebs afferma che si sarebbe trattato di materiali didattici predisposti per un insegnamento elementare del diritto, forse non destinati a essere pubblicati; ciò consentirebbe di spiegare, secondo lo studioso tedesco, le numerose lacune che l’opera denota, che – a suo giudizio - ne avrebbero reso assai problematica l’applicazione pratica. [Maria Antonietta Ligios]