Edizione di riferimento:
Aristoteles Latinus I 1-5, Categoriae vel praedicamenta, Translatio Boethii – Editio composita, Translatio Guillelmi de Moerbeka, Lemmata e Simplicii commentario decerpta, Pseudo-Augustini Paraphrasis Themistiana, editioni curandae praesidet L. Minio-Paluello, Bruges-Paris 1961, 129-175 (Corpus Philosophorum Medii Aeui).
In epoca tardo-antica le Categorie di Aristotele, testo centrale per la conoscenza della logica dedicato alle forme fondamentali di enunciazione dell’essere, furono oggetto di alcune traduzioni e commenti in lingua latina. Fino al X secolo, godette di ampia diffusione un opuscolo anonimo risalente al IV secolo e ascrivibile a un discepolo del filosofo Temistio e del nobile romano Vettio Agorio Pretestato, personaggi che l’autore dice di aver ascoltato personalmente: l’opera, nota con i titoli di Tractatus de categoriis Aristotelis, Categoriae decem o Paraphrasis Themistiana, non è una traduzione letterale delle Categorie, ma un breve commento in forma di parafrasi che intende semplificare il dettato aristotelico per renderlo comprensibile agli indotti e ai principianti (“rudibus”) in vista del suo impiego nella pratica retorica. Non è da escludere che sia stata composta originariamente in greco, forse da Temistio stesso.
Nessuno dei diversi tentativi di attribuzione ha per ora riscosso un favore unanime della critica: Georg Pfligersdorffer, Pierre Hadot e Klaus Oehler propendono per Agorio Pretestato in persona; Lorenzo Minio-Paluello suggerisce cautamente il nome di Albino, un filosofo neoplatonico di cui Boezio conosceva la fama senza poterne leggere le opere; da ultimo Michael Baldzuhn propone di postdatare la parafrasi al IX secolo, ascrivendola a Remigio di Auxerre, senza però considerare che essa è citata da autori precedenti, in primis Isidoro di Siviglia.
Con maggiore certezza sembra possibile collocare l’origine dell’errata attribuzione ad Agostino nella corte carolingia: lì Alcuino di York premise all’opera un prologo con dedica a Carlo Magno, e da lì le Categoriae decem si diffusero in tutta Europa. Letta e citata nel corso dei due secoli successivi da intellettuali del calibro di Alcuino stesso, Remigio di Auxerre (che la glossò nel codice Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 12949) e Giovanni Scoto Eriugena, la parafrasi fu spesso considerata come una traduzione completa, finché nell’XI secolo fu soppiantata dalle versioni e dai commenti di Boezio. I primi dubbi sulla paternità agostiniana furono sollevati nel XIV secolo, e vennero infine confermati dai padri maurini, che nell’edizione di Agostino la relegarono tra le opere di paternità incerta.
Per quanto riguarda la tradizione del testo, Minio-Paluello censisce 40 testimoni manoscritti, tutti discendenti dall’edizione di Alcuino, di cui riportano la prefazione. L’editore riscontra l’intrusione di numerosi errori e duplices lectiones sin dagli stadi più alti dello stemma: ciò spiega la contaminazione diffusa nella gran parte dei codici. È tuttavia possibile isolare tre famiglie principali, discendenti da altrettante copie dell’edizione di Alcuino: t ha come principali testimoni Ld = Codex Leidradi della Casa Generalizia dei Padri Maristi di Roma del 798, Vc = Vercelli, Biblioteca Capitolare Eusebiana, CXXXVIII (143) di IX secolo e Te = Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 1926 di X secolo; v è noto soprattutto da He = Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 12949 di IX secolo; u non ha alcun testimone “puro”, ma può essere ricostruito dall’accordo di Gn (Sankt Gallen, Stiftsbibliothek, 274 di IX/X secolo) e Fe (Berlin, Staatsbibliothek zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz, Phillipps 176 di X secol) contro la lezione di t e v. [M. Stefani]