Edizione di riferimento:
A rhetorical grammar: C. Julius Romanus, introduction to the Liber de adverbio as incorporated in Charisius' Ars grammatica II. 13, edition with introduction, translation and commentary by D. M. Schenkeveld, Leiden; Boston 2004.
Nel libro II della sua Ars grammatica, Carisio inserisce un ampio estratto riguardante l’avverbio tratto dalle Ἀφορμαί (o liber / libri Ἀφορμῶν), “nozioni di base” o “punti di partenza” di Giulio Romano: sul titolo e sull’opera come raccolta di osservazioni grammaticali di varia natura, di cui resta ignota l’architettura complessiva, ma si ritiene che non dovesse coincidere con l’assetto tradizionale dei trattati del settore, vd. la Scheda Autore. Schenkeveld (pp. 36-37; cfr. p.15) tende a classificare le Aphormài nella categoria “regulae type” focalizzata soprattutto da Vivien Law (1986, 1996, 1997, 2002; cfr. anche De Nonno 1990), ovvero una tipologia di trattato che selezionava problemi ed esempi ed era forse destinata più alla consultazione che non al diretto insegnamento.
Carisio ci presenta in un ampio estratto (poco più di sei pagine nell’edizione teubneriana di Barwick: pp. 246,18-252,31) l’introduzione premessa da Giulio Romano a una lunga lista di esempi, alfabeticamente ordinati, di vari avverbi tratti da brevi passi di scrittori antichi, ciascuno brevemente commentato (nell’edizione Barwick, pp. 253,1-289,17). Il passo inizia con la definizione della parte del discorso: adverbium est pars orationis quae adiecta verbo significationem eius explanat atque implet. Di tale definizione è particolarmente importante la sottolineatura della necessaria condizione di una adiectio a un verbum, in quanto servirà a Giulio Romano come punto di riferimento nell’affrontare il primo dei due aspetti su cui queste sue pagine intendono soprattutto concentrarsi, e cioè la dibattuta questione del rapporto intercorrente fra avverbio e interiectio. Schierandosi nettamente contro precedenti posizioni di segno opposto, figuranti soprattutto nella trattatistica greca, Giulio Romano intende escludere fermamente che le interiezioni possano essere rubricate fra gli avverbi. Parole di discusso statuto come heu e heus, presunti adverbia vocandi respondendive, non vanno intese come avverbi, ma separate nella categoria della interiezioni, proprio perché non ammettono una adiectio verbi tale da intervenire a spiegare o chiarire il significato di quel verbo (Schenkeveld, pp. 63-64).
Il punto si intreccia con l’illustrazione di possibili consortia fra l’avverbio e altre parti del discorso, ovvero quei casi in cui certi avverbi risultano omofoni di parole da interpretarsi come differenti parti del discorso (per es. sedulo come avverbio e sedulo come dativo/ablativo di sedulus: cfr. Schenkeveld, p. 55). Giulio Romano passa quindi in rassegna le significationes dell’avverbio, distinguendo adverbia loci, temporis, numeri, negandi, adfirmandi, demonstrandi, hortandi, optandi, voluntatis, ordinis, qualitatis, interrogandi, comparandi, praeferendi, dubitandi, adnuendi, e infine le significationes causalis e personalis.
Dopo avere brevemente accennato ai gradi di comparazione dell’avverbio (la collatio), Giulio Romano accosta il secondo problema che maggiormente lo impegna, ovvero la questione del discriminare la correttezza o meno di forme avverbiali terminanti in -e oppure in -o. A suo parere la desinenza più propria, giustificata dall’analogia (ratio), sarebbe quella in -e, ma vi sono numerosi esempi di vocaboli che nell’uso presentano un’alternanza delle due desinenze e spesso i veteres (etichetta in cui egli sembra includere senza distinzioni autori arcaici e autori d’età classica: Schenkeveld, p. 48) attestano forme che appaiono eccentriche o irregolari. In linea di massima sembra dover essere il principio di analogia a regolare la correttezza linguistica, mentre l’auctoritas dei veteres, che pure ha il suo peso e rende certe forme plausibili e praticabili, deve restare in secondo piano (251.15: vd. Schenkeveld, p. 45). Nella lunga lista di esempi cui l’introduzione è preposta, Giulio Romano considererà alcuni singoli casi, offrendo talora qualche indicazione prescrittiva. Per esempio (254, 1-5: cfr. Schenkeveld, p. 35) Ampliter Plautus in Bacchidibus [677] pro ample. Omnia enim nomina quae in qualitate sunt aut in quantitate, si dativo casu in o exeant, adverbia per e litteram faciunt, ut doctus docte, amplus ample. Sed veteres non observaverunt.
Queste complesse e spesso oscure pagine sono state ritenute da Schenkeveld particolarmente elaborate sul piano retorico (pp. 70-79). A piena illustrazione del punto, lo studioso dedica un paragrafo (pp. 71-75) al ritmo di prosa a suo parere attivo in questa introduzione, identificabile secondo il suo punto di vista come uno dei primi esempi di transizione fra la prosa metrica e quella ritmica (cursus mixtus). Di qui la sua presentazione dell’opera di Giulio Romano in termini di “rhetorical grammar”: quanto ci resta della sezione de adverbio costituirebbe una sorta di saggio dimostrativo di cosa un oratore di vaglia potesse produrre anche affrontando un tema potenzialmente arido come quello costituito da simili questioni grammaticali (pp. 75 e 79). [F. Giannotti]