Edizione di riferimento:
La grammatica dell' Anonymus Bobiensis: GL I 533-565 Keil: con un'appendice carisiana, edizione critica a cura di M. De Nonno, Roma 1982.
L’Anonymus Bobiensis è l’ignoto redattore di una succinta compilazione pubblicata per la prima volta da Eichenfeld-Endlicher nel 1837 (pp. 77-124) con l’impropria intestazione di incerti artium grammaticarum fragmentum, e considerata allora, in base all’erronea attribuzione di un suo passo da parte di Girolamo Colonna, possibile resto di una perduta opera del grammatico Sacerdote (p. VI, ma ora Hantsche 1911, pp. 38-40 e De Nonno 1982, p. XXVII n. 42). L’ars rifluì poi nel 1857, in un testo per lo più dipendente, per base diplomatica, da quello degli editori vindobonensi, nel primo volume dei Grammatici Latini di Keil quasi a mo’ di appendice (pp. 533-565), poiché, a causa della somiglianza con porzioni dell’ars di Carisio e dell’ingannevole datazione del manoscritto a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, l’editore la considerò inizialmente come uno dei tanti excerpta ex Charisii arte grammatica prodotti in epoca carolingia (pp. XVII e sgg., ma contro tale riduttiva valutazione già Christ 1862, pp. 136-139); successivamente, con la pubblicazione a breve distanza delle sue due edizioni di Dositeo, Keil si ricredette, riconoscendo all’Anonymus uno status di testo indipendente (GL V 1871, p. 336 e GL VII 1880, pp. 367-369). Per un più solido inquadramento storico della tradizione manoscritta e un testo finalmente affidabile si dovrà invece attendere l’edizione critica di De Nonno 1982 (pp. 1-53). L’ars Bobiensis è trasmessa in una parte della sezione tardoantica dell’ex bobbiese Neapolitanus Latinus 2 contenuta nei ff. 142-155 ‒ che insieme ai ff. 140-141 sembrano costituire un’unità originariamente indipendente (De Nonno 2000, pp. 142 e sgg.) ‒ e trascritta in una corsiva risalente alla seconda metà del V secolo. Riscoperto nel 1493 insieme ad altri codici grammaticali, il manoscritto napoletano, unico portatore di tradizione, finì nelle mani dell’umanista Aulo Giano Parrasio, che nei primi anni del XVI secolo fece realizzare una copia, da lui poi postillata e talora corretta, dell’ars Bobiensis all’interno del Neapolitanus IV A 17 (ff. 271-309). Tuttavia, trattandosi di un apografo diretto, il contributo di tale codice si limita solo alla retrodatazione di indipendenti congetture degli editori moderni (De Nonno 1983). Considerata per lungo tempo, secondo la tradizionale ricostruzione di Barwick 1922, pp. 3-68, come la più fedele riproduzione del Gewährsmann della Charisius-Gruppe, a cui è collegata tramite un intermediario condiviso con Dositeo, l’ars Bobiensis oggi non andrà più intesa come una semplice recensione abbreviata di quell’antica fonte (come ancora crede Dionisotti 1984, p. 203), ma piuttosto come il frutto di una compilazione che, su una base comune all’intero “gruppo”, integra fonti non identificate e manipolate omogeneamente da un autore allo scopo di elaborare un testo più pratico che teorico. E tale autore, per l’utilizzo del latino come lingua guida all’interno di un ricco elenco di idiomata generum bilingui (pp. 32, 1-35, 33 D. N.), andrà probabilmente identificato come un maestro di lingua latina che si rivolge a un pubblico ellenofono con incarichi amministrativi e militari (Bonnet 2006, p. 99). Ecco allora che, contrariamente a chi vedeva in questo trattatello un primo esempio di importazione in Occidente di grammatiche latine nate nella pars Orientis dell’Impero, al pari di artes come quelle di Carisio o Diomede (Dionisotti 1984, pp. 204 e sgg., ma su tale ipotesi già De Nonno 1985, p. 373 n. 1 invitava alla cautela), si dovrà piuttosto supporre una sua origine in un territorio latinofono ma governato da autorità greche (Bonnet 2006, pp. 100 e sgg.). Incerta, tuttavia, resta l’identificazione del luogo di realizzazione dell’ars. In effetti, la supposizione di una grammatica concepita al di fuori dell’ambiente scolastico si scontra con la fisionomia materiale del manoscritto, più simile a quella di un “libro da lavoro”. Il numero e la tipologia degli errori compiuti dal copista ‒ in aggiunta alla presenza di due mani correttrici più o meno coeve ‒ escludono che lo scriba si possa identificare con l’autore e il testo copiato con l’originale, e allo stesso tempo rafforzano l’ipotesi di una copia realizzata per le esigenze di un maestro o di uno studente (De Nonno 1982, pp. XXV e XXXIV). Queste due caratteristiche costringono a immaginare una probabile collaborazione tra il grammatico che concepì l’ars e il copista a cui venne affidato il lavoro di trascrizione. Uno scenario tanto più credibile se si pensa che la collocazione cronologica dell’opera è posta tra la seconda metà del IV secolo e la seconda metà del V secolo, dove il terminus post quem è dovuto alla condivisione a 24, 3 D. N. ‒ assai significativa secondo De Nonno 1985, p. 372 n. 1 contra Dionisotti 1984, p. 204 e Bonnet 2006, p. 100 ‒ del passo di Lucano 7, 217 e sgg. con il tardo Fragmentum Bobiense de nomine et pronomine a 17, 1-4 Passalacqua, e alla designazione come veteres di quei grammatici ‒ per Carisio semplicemente degli alii ‒ che introdussero la quinta declinazione (Dionisotti 1984 e Bonnet 2006 ibid.); mentre il terminus ante quem è fondato sulla datazione paleografica del manoscritto. Tale scenario suggerisce come non molto tempo né molti intermediari si siano frapposti tra l’originale e la sua copia e che, di conseguenza, è probabile che il luogo della produzione dell’opera sia coinciso con quello della sua trascrizione. Anzi, se gli scopi contingenti per cui questo manuale era stato concepito ne spiegano la totale assenza di circolazione, facendo di Bobbio la depositaria dell’unico originale, ancor più dell’«appealing, but fanciful» (Zetzel 2018, p. 330) ipotesi di Siracusa (Bonnet 2006, p. 101 n. 30), è Ravenna una candidata di area ellenofona più idonea a presentarsi quale luogo di produzione dell’ars, come già supposto per gli antigrafi di altri testi grammaticali contenuti proprio nel bobbiese Neapolitanus (De Nonno 2000, p. 142).
Il Neapolitanus Latinus 2 ci conserva l’ars come anepigrafa, ma elementi testuali e codicologici suggeriscono che tale era già lo stato del suo antigrafo (De Nonno 1982, pp. XXII-XXIII). Allo stesso modo, non vi è alcun elemento sul piano materiale e contenutistico che autorizzi a supporre che il testo sia mutilo, magari esito di una riduzione «due to the scribe of our copy than to the redactor of the text» (Dionisotti 1984, p. 204). Anzi, il fatto di aver limitato solo alla forma perfecta del verbo la discussione delle quattro formae verborum preliminarmente presentate (p. 47, 2 e sgg. D. N.) appare del tutto coerente alla condotta di altri artigrafi (a dispetto di quanto crede Dionisotti 1984 p. 204, cfr. ora De Nonno 1985, p. 372 n. 1). Inoltre, la conclusione dell’ars al termine della trattazione del de verbo più che l’esito di una brusca interruzione ‒ come ancora credevano Eichenfeld-Endlicher 1837, p. VI e Jeep 1893, p. 16 ‒ non solo trova rispondenze strutturali in trattati simili come l’Institutio de nomine et pronomine et verbo di Prisciano, ma soprattutto sembra il riflesso della natura stessa dell’opera, che, dopo aver esposto le regole flessive sia nominali che verbali, non ha ragione di dover proseguire l’esposizione con l’illustrazione di una pars orationis dallo statuto morfologicamente ibrido e incerto come quella del participio, privo di proprie particolarità morfologiche degne di attenzione (Bonnet 2006, pp. 75 e 101 e sgg.). L’ars Bobiensis è suddivisa con appositi titoli in quattro sezioni. Nella prima, il De oratione (p. 1, 1-6 D. N.), troviamo l’elenco delle partes orationis che risente dell’influsso dell’organizzazione di Donato per la sequenza verbum-adverbium. La seconda sezione, il De nomine (pp. 1, 7-39, 24 D. N.), è il capitolo più lungo ed è suddiviso in dieci porzioni non tutte provviste di una titolazione: elenco e descrizione degli accidenti del nomen (1, 8-8, 22 D. N., al cui interno troviamo un capitoletto indipendente: differentia ablativi et septimi casus [3, 19-4, 21 D. N.]); de conparationibus (7, 4-8, 22 D. N.); le declinazioni e le loro tipologie flessionali (8, 23-25, 16 D. N.); elenco di singularia e pluralia tantum (25, 17-30, 21 D. N.); de monoptotis (30, 22-31, 22 D. N.); quae nomina ὑποκορίσματα non recipiunt (31, 21-30 D. N.); liste di idiomata generum latino-greci (32, 1-35, 33 D. N); presentazione dei nomi in base all’ablativo singolare (36, 1-37, 8 D. N.) da intendersi, vista la scelta del genitivo nella presentazione delle declinazioni, come semplice ausilio mnemonico per l’assimilazione dei paradigmi (Bonnet 2006, p. 87); i nomi in -nis (37, 9-18 D. N.) e il de gradibus conparationum (37, 19-39, 24 D. N.) con cui si riprende il precedente e quasi omonimo capitolo. La terza sezione è il De pronomine (39, 25-46, 24 D. N.), la cui presentazione della pars e dei suoi accidenti è assai simile a quella di Carisio e Dositeo, ma si differenzia sensibilmente da essi per la scelta di fornire per tutti i pronomi (eccetto nullus, quispiam, quias, nostras e vestras) i paradigmi completi, preferendo così far prevalere l’apprendimento delle forme sull’informazione teorica. La quarta e ultima sezione è il De verbo (47, 1-53, 30 D. N.), i cui tre sottotitoli conservati sono probabili aggiunte successive fatte durante il montaggio di materiali provenienti da fonti diverse (non a caso più limitate appaiono in questo capitolo le coincidenze con Carisio), poiché essi sono del tutto inadeguati rispetto alle quattro parti in cui il contenuto sembra potersi suddividere. A un elenco di formae verborum (47, 2, 6 D. N.) segue il De verbo perfectae formae (47, 7-49, 21 D. N.), dove si fornisce la definizione del verbo e la descrizione dei suoi accidenti. La terza parte, De observatione verborum (49, 22-51, 6 D. N.), stabilisce la determinazione dei paradigmi di una coniugazione in base alla seconda persona singolare dell’indicativo presente, illustra il metodo alternativo fondato sull’imperativo e, infine, spiega come da questo si ricavi l’infinito e il futuro semplice. L’ars si conclude con il raggruppamento delle varie forme di perfetto proprie di ognuna delle quattro coniugazioni, ricorrendo a numerosi esempi. In coda, troviamo una regula sull’appartenenza al secondo ordo dei verbi con la e davanti la -o. Dall’approfondita analisi del contenuto (Bonnet 2006 pp. 75-98) l’ars Bobiensis appare un’opera che sulla tradizionale struttura della Schulgrammatik, ereditata dal Gewährsmann della Charisius-Gruppe e di cui rimangono ancora tracce evidenti (Law 1996, p. 42), adotta, rimodella e integra una serie di influenze da altre fonti (una di queste nel De verbo comune tanto all’Ars di Foca quanto a parti del Parisinus Latinus 7530, Bonnet 2006, p. 97) che, allontanandola da Carisio e Dositeo, non solo le conferisce una fisionomia autonoma e originale, ma per la sua attenzione agli aspetti più strettamente morfologici e lessicali e per il desiderio di fornire un ausilio pratico ed economico per l’apprendimento, la avvicina tipologicamente ai manuali del cosiddetto regulae-type. [A. Bramanti]