Edizione di riferimento:
Grammatici Latini, IV. Probi Donati Seruii qui feruntur de Arte grammatica libri, ex recensione H. Keilii, Notarum Laterculi, ex recensione Th. Mommseni, Hildesheim 1961, 219-264 (reprografischer Nachdruck der Ausgabe Leipzig 1864).
De ultimis syllabis liber ad Caelestinum è il titolo dato da Keil con intento descrittivo a un’opera anonima e adespota conservata unicamente nella sezione tardoantica dell’ex bobbiese Neapolitanus Latinus 2 (databile alla seconda metà del V secolo) e pubblicata in GL IV 219-264. Il riferimento a un non meglio identificato Caelestinus è ricavato dalla dedica contenuta nella praefatio in esametri con cui si apre il testo. Dopo la riscoperta dei codici grammaticali a Bobbio nel 1493, Aulo Giano Parrasio fece realizzare una copia del testo nel Neap. IV A 17, che costituì il modello per l’editio princeps da lui edita a Milano nel 1504, nella quale l’opera fu presentata, per arbitrio dello stesso umanista, con il titolo di Instituta artium e attribuita a Probus, per il fatto che nell’antico codice il trattato era immediatamente precedente ai Catholica Probi (Parrasio 1504). Un’associazione tra questi due testi ribadita nella ristampa successiva pubblicata a Vicenza nel 1509 dove il De ultimis syllabis viene collocato subito prima dell’editio princeps dei Catholica (Parrasio 1509). Tale apocrifa attribuzione portò van Putschen a pubblicare i due testi addirittura come il primo (il De ultimis syllabis) e il secondo volume (i Catholica) dei M. Valerii Probi grammaticarum institutionum libri. La ricollazione diretta del codice napoletano non impedì a Lindemann di continuare a mantenere questa erronea associazione tra i due testi nel primo volume del suo corpus pubblicato nel 1831, limitandosi a osservare giustamente che quel Probus dei Catholica non era il grammatico di I d. C., ma qualcun’altro «serior eiusdem nominis» (Lindemann 1831, p. 39). A seguito di questa edizione sorsero parecchi studi che dimostrarono la reciproca estraneità dei due testi, portando così Keil, nel quarto volume dei suoi GL (1864), a separare definitivamente il De ultimis syllabis dall’ombra di Probo e a pubblicare un testo finalmente autonomo, ma la cui recensio, a parte personali interventi, si basava ancora sull’edizione di Lindemann. Il De ultimis syllabis è un trattato sulla determinazione della natura prosodica delle sillabe finali, che però si differenzia da tutti gli altri testi appartenenti alla tipologia de finalibus. Queste opere sono dei sintetici compendi dal carattere normativo, caratterizzati da una sapiente organizzazione della materia (con distinzione tra syllabae primae, mediae e finales) e da un certo dogmatismo raramente sostenuto da esemplificazioni, in quanto concepiti come ausili a una metrica di tipo ‘passivo’, ossia pensata per gli studiosi. Da esse si distingue, più per la mentalità che per la dottrina, il De ultimis syllabis liber. Dopo la praefatio troviamo una presentazione dei vari genera litterarum, con suddivisione in vocales, semivocales e mutae, e del loro valore prosodico (GL IV 219, 14-222, 16), cui fa seguito una distinzione teorica preliminare tra syllabae naturales (222, 17-256, 14) e le syllabae la cui quantità è determinata dalla positio (256, 15-259, 2). Per le prime il proposito di limitarsi alle sole syllabae finales resta valido solo per il nomen, per il verbum (per il quale si considerano anche le paeneultimae) e per alcune categorie di avverbi. Mentre per pronomi, alcune categorie di avverbi, congiunzioni, preposizioni e interiezioni l’autore fornisce scansioni integrali. Con la seconda tipologia di syllabae, invece, vengono comprese anche le syllabae communes per natura e per posizione. Chiudono il trattato una coppia di capitoli: il primo (259, 3-262, 17) riguardante violazioni prosodiche dovute a licenze poetiche, nomina omografi non isoprosodici e le apofonie quantitative fra i temi verbali del presente e del perfetto di alcuni verbi; il secondo contenente i 14 metaplasmi codificati dalla tradizione grammaticale (262, 18-264, 16), una presenza quest’ultima motivata dallo stretto legame del metaplasmus con i concetti di metri necessitas e licentia poetarum (De Nonno 1990a, pp. 464-466). La singolarità di quest’opera sta nella preferenza per le ambiguitates e le varietates prosodiche, nella fiducia riposta nell’auctoritas e nell’esposizione arricchita da una enorme quantità di citazioni (se ne contano circa 640 su poco più di 45 pagine di edizione): tutti elementi che dimostrano un interesse rivolto più all’illustrazione dell’usus auctorum ‒ tra i quali spicca nettamente Virgilio (circa 590 citazioni di contro alle 47 dei restanti autori), primario oggetto di indagine e principale riferimento dottrinale ‒ che non alla determinazione delle regulae. Se a ciò si aggiunge uno stile volutamente affettato, per quanto non privo di imperizie, ne emerge la fisionomia di un trattato non elementare e con una destinazione non immediatamente scolastica, ma pensato piuttosto per un uso della metrica di tipo ‘attivo’, destinato ai versificatori (De Nonno 1990b). Alla luce di queste peculiarità, che rendono il De ultimis syllabis un’opera non facilmente classificabile, Schmidt 1993, pp. 135 e sgg., la colloca intorno alla metà del IV secolo, sia perché è il primo scritto a noi conservato che diffonde i precetti della metrica classica contro la progressiva perdita della quantità vocalica iniziata a partire dal III secolo, sia perché la dottrina proposta non sarebbe stata ancora influenzata dall’insegnamento prosodico di Donato. Diversamente, invece, si pronuncia De Nonno 1990b, che pensa a una datazione intorno alla seconda metà del V secolo, sia perché la totale assenza di circolazione dell’opera suggerisce uno scarso intervallo tra l’età della sua composizione e la datazione del suo unico testimone; sia perché la presenza di copiose e importanti citazioni di Lucano (ben 18) non trova analoghi riscontri in grammatiche a metà IV secolo; e sia, infine, perché l’uso di premettere prefazioni metriche a testi in prosa in ambito grammaticale trova riscontro soltanto nell’Ars di Foca datata nel V secolo. Incerto resta invece il luogo di realizzazione dell’opera. Tuttavia, in assenza di elementi probanti che ne tradiscano univocamente un’origine orientale, resta leggermente più probabile una collocazione occidentale al pari di altri sussidi prosodici, come il De finalibus di Servio o il De ratione metrorum di Vittorino. [Andrea Bramanti]